(segue) Gli ultimi sei cortometraggi in selezione recensiti dagli studenti dell’Università di Bologna.
All’appello mancavano le recensioni degli ultimi sei cortometraggi tra i dodici selezionati per questa prima edizione di IranFest alla cui realizzazione ha preso parte anche un gruppo di studenti dell’Università di Bologna. Ed eccole a seguire.
RED SEASON – Red Season, cortometraggio iraniano di Hasan Najmbadi, racconta la storia di Zahra e Fatemeh, due sorelle che decidono di andare a Teheran per inseguire il loro sogno di diventare attrici. Tuttavia, la loro grande e assoluta volontà di emanciparsi prenderà il sopravvento e le porterà allo scontro e all’allontanamento. Il corto è ambientato a Teheran, città in cui convivono una società sempre più aperta e una cultura talvolta ancora chiusa e tradizionalista, dicotomia che accompagna anche le vite delle protagoniste, divise tra i sogni e le velleità personali e una famiglia opprimente. Attraverso un utilizzo esperto delle immagini e una fotografia piacevole, l’evoluzione e la crescita delle ragazze alla scoperta della libertà e di se stesse viene raccontato passo dopo passo, tra preoccupazioni e incertezze, ma anche scoperte e successi. (di Cristina Gennari)
Questo western made in Iran è un omaggio al cinema e alla storia americana che riesce ad universalizzare un evento realmente geograficamente e storicamente lontano (rispetto all’Iran, s’intende) rendendolo il punto di partenza per una riflessione sulla discriminazione e sull’odio del diverso. il regista sceglie di utilizzare l’innocenza e la semplicità dei bambini per far da contrasto alla cieca e ottusa violenza degli adulti.
Una temporalità frammentata che costringe al flashback e flashforward più volte è utilizzata con sapienza come strumento di costruzione della tensione, un’ inconsueta regia dinamica e passionale, attenta nel costruire inquadrature mai banali (siamo ben contenti di vedere valide varianti al classico stile semi-documentario tipico di tanto cinema mediorientale) ci porta nel dramma di un bambino nero che cerca invano di togliersi di dosso la croce che lo condannerà a vita: il colore della pelle. Ecco che troviamo sin da subito l’ingenuità speranzosa opposta all’odio insensato. E ancora, il mondo del gioco infantile che si fa atroce realtà. Tutto ciò che vediamo rimanda a qualcos’altro, ogni scena è pensata per spingere lo spettatore a ragionare, a prendere atto di quanto folle possa essere la violenza (specialmente quella razzista) grazie al confronto con la semplicità e la naturalezza del comportamento di un bambino.
Alla resa dei conti la domanda è d’obbligo: c’è speranza per il futuro? Il bambino bianco, in fin dei conti, non fa nulla per fermare il bambino di colore, il quale, tuttavia, avviandosi nel deserto su di un cavallo bianco, sicuramente non avrà vita facile nel nascondersi ai predatori.
Si poterebbe parlare del corto per ore ed e’ strabiliante che nella sceneggiatura non ci sia nemmeno una parola. (di Marco Giovannetti)
ARE YOU VOLLEYBALL? – Il mondo di oggi è un luogo dove guerre e sofferenza continuano a proliferare. Grandi masse di persone sono costrette a lasciare le proprie abitazioni per cercare la salvezza altrove. Spesso, però, la nuova vita dei rifugiati è un limbo fatto di altro dolore e altre difficoltà. Sempre di più, poi, a vivere queste esperienze durissime sono i più deboli. Bambini a volte costretti a cavarsela da soli, senza più una madre o un padre a sorreggerli. Il pluripremiato Are You Volleyball? di Mohammad Bakhsi è uno stradordinario lavoro che descrive la durissima realtà della vita dei rifugiati. In un campo, infatti, uomini, donne e bambini di lingua araba si ammassano lungo il confine di filo spinato che li separa dai loro guardiani, di lingua inglese. La storia si svolge in un luogo non ben identificato perché, purtroppo, in troppi potrebbe essere ambientata. La tensione è molto alta e il rapporto con le guardie è difficile. Ma in questo contesto difficile arrivano i bambini a smuovere la situazione. Nonostante anch’essi sottoposti a livelli di sofferenza impressionanti, la voglia di normalità, di giocare, di vivere sono più forti. E un evento casuale riporta il sorriso all’interno dell’intera comunità. Ancora una volta una palla rappresenta un mezzo di socializzazione capace di travalicare ogni barriera, fosse anche fatta di filo spinato. Ne viene fuori una surreale partita di pallavolo che, pur non scalfendo la dura brutalità della situazione, avvicina esseri umani destinati a vite molto diverse. Resiste ancora dell’umanità dietro alla cortina di odio e paura che la guerra erige. Le immagini riescono a rendere alla perfezione il messaggio e fanno di questo cortometraggio una testimonianza importante di quanto nella semplicità e nell’innocenza di uno sguardo o di un gesto valga ancora la pena di trovare qualcosa per cui vivere. (di Andrea Lucietti)
CHILDHOOD DREAM – Esplorare l’infanzia in Iran, mostrandone le complessità e le difficoltà, è quello che prova a fare Childhood Dream, cortometraggio iraniano di Hasan Najmbadi. Ambientato in un villaggio in Iran, tra la polvere e il fuoco, il corto mostra vite vere e semplici che si nutrono di piccole battaglie e conquiste, mettendo in luce la terra nel suo essere scarna e umile, e lo fa attraverso gli occhi puri e genuini dei bambini. Bambini che però si trovano a crescere velocemente, messi alla prova dai problemi e dalle condizioni di una realtà povera e difficile che li porta ad impegnarsi in un’attività quotidiana: bruciare qualsiasi filo elettrico riescano a rimediare per vendere il rame e guadagnare qualche soldo. Nonostante ciò, c’è sempre spazio, come svela il titolo, per i sogni dei bambini che tentano in un tutti i modi di trovare una realizzazione anche in una quotidianità complessa. Si tratta di sogni, come guadagnarsi un film da noleggiare, che guardano lontano, magari verso un mondo distante e diverso su cui fantasticare. Il regista ha il merito di utilizzare sapientemente le immagini e la fotografia, adeguando lo stile semplice ed essenziale alle vite dei protagonisti. (di Marco Giovannetti)
PRESENCE – La sensazione che si ha guardando Presence è quella che si potrebbe provare guardando un thriller avvincente oppure un film pieno di suspence. La differenza sostanziale, però, sta nello scioglimento: un film impiega (mediamente) quasi due ore per arrivare ad una conclusione, in Presence si cerca di usare solo una manciata di minuti, mancando clamorosamente l’obiettivo. I 14 minuti di Presence, sembrano i primi minuti di un film, sembra davvero di assistere ad uno spettacolo cinematografico, quanto meno per intensità e durata delle (tre) sequenze e per la regia molto vicina e partecipe della vicenda. Il problema sorge alla fine, quando inevitabilmente si è costretti a chiedersi E quindi?. E con problema non s’intende di certo l’aver scelto un finale aperto, semmai il non aver scelto nessun tipo di finale.
Un uomo torna a casa in macchina con la moglie dopo esser stato ad una festa a casa di amici. Sotto una pioggia torrenziale i due si accorgono che la luce della loro abitazione e’ accesa e che la serratura è stata cambiata. Grazie all’intervento della polizia riescono a far aprire la porta, trovandosi davanti un’anziana signora che dichiara di non conoscere i due sedicenti inquilini. Dopo il vano tentativo di far testimoniare qualche vicino di casa in loro favore, la coppia convince la polizia a farsi accompagnare a casa degli amici da cui erano stati per farsi identificare. Anche qui, stesso copione, con il padrone di casa che non riconosce nessuno. I due vengono portati quindi in caserma, momento in cui l’enigmatico corto si arresta.
Presence parla della perdita dell’io, di un caso stranissimo, di una coppia smemorata oppure di una modernità in cui gli abusi e i soprusi vengono consumati senza possibilità di appello: insomma, di che parla Presence?. Se il tentativo era quello di creare un’atmosfera, un mood, allora l’opera del regista è parzialmente riuscita: piace la pioggia torrenziale che rende tutto più concitato, la costruzione della tensione e anche l’interpretazione degli attori, ma poi? (di Marco Giovannetti)
SAMAR – Spesso ci dimentichiamo di quanta forza possa esserci nei bambini. Giustamente li riteniamo i più indifesi, da proteggere in maniera particolare. Ma non ci accorgiamo che, il più delle volte, sono loro che danno la forza a chi gli sta intorno di andare avanti con le proprie vite. Il cortometraggio Samar, scritto e diretto da Kaveh Jahed, affronta proprio questo tema. Un padre e una figlia sono distrutti da uno dei lutti più terribili che esistono: la perdita di una moglie, la scomparsa di una madre. La storia si svolge all’interno del loro appartamento dove il silenzio è rotto dai singhiozzi di un marito disperato. I parenti chiamano preoccupati per conoscere le condizioni dei due, soprattutto della povera orfana che, legittimamente, è la persona che tutti vorrebbero proteggere con maggior intensità. Invece è lei quella più forte. In un momento di tristezza infinita, di dolore soffocante, manda avanti la casa, lava i piatti, cucina la cena e continua ad andare a scuola. E in un contesto tanto difficile, mentre il padre si perde nel suo dolore, da solo, nel letto vuoto, lei decide che è ora di diventare grandi. Come se da quel momento iniziasse un nuovo capitolo delle loro vite è lei, la più indifesa, la più piccola, a tirare fuori il padre dal torpore. La piccola Samar dimostra di essere la più forte e attraverso un rituale di rinascita comunica che è tempo di andare avanti, non di rassegnarsi alla sofferenza. Il cinema iraniano spesso usa la figura dei bambini per la propria denuncia sociale. In questo caso il regista utilizza questa storia per dimostrare come l’apparente debolezza può racchiudere una forza tanto inaspettata quanto dirompente. (di Andrea Lucietti)